Globalizzazione e sfruttamento

1.

La rivolta operaia di Melfi, conclusasi con un accordo cui la FIAT si è piegata obtorto collo, riconoscendo non solo la fondatezza delle rivendicazioni economiche dei lavoratori, ma anche di un regime di fabbrica intollerabile, è il primo segnale in Italia, dopo tanti anni, che l'esasperazione legata alle condizioni lavorative può avere la meglio sulla paura di perdere il posto di lavoro e riabilitare forme di lotta collettiva che sembravano ormai archiviate. Si tratta di un segnale importante al di là della circostanza specifica che lo ha prodotto.

Esso attesta che, nel contesto di un'economia che si va globalizzando, le leggi del mercato del lavoro, per quanto oggettive, vale a dire indipendenti dalle singole volontà degli imprenditori e, in parte, dei politici, sono sempre più inique e rischiano di fare affiorare nuovamente, nel contesto della società postindustriale del terzo millennio, una dura protesta operaia associata al fantasma dello sfruttamento. In realtà, questo fantasma non è mai scomparso. Il termine, di ascendenza marxista, è stato semplicemente archiviato come non pertinente, in quanto riferito ad una teoria del valore errata. Quest'articolo tenta di riproporne il significato aggiornandone il senso in rapporto agli sviluppi della globalizzazione.

2.

La nozione di sfruttamento fu elaborata da Marx sulla base dell'identificazione, da parte di Smith e di Ricardo, del lavoro come unica fonte di valore. A tale identificazione Marx tentò di dare una spiegazione "scientifica" ricavandola dall'organizzazione classista della produzione capitalistica. Superata la schiavitù antica e la servitù medievale, costretti dalla crisi agricola ad inurbarsi e dunque a separarsi da mezzi di produzione che permettevano loro di provvedere direttamente, in qualche misura, ai bisogni di sussistenza i lavoratori si ritrovano "liberi" di vendere la loro forza lavoro come una merce al miglior offerente, vale a dire a chi voglia utilizzarla. Data la loro necessità di sopravvivere, essi devono però accettare un contratto che implica un numero di ore lavorative il cui prodotto va al di là di ciò che essi ricevono in cambio sotto forma di salario. Lavorando al di là di ciò che è necessario alla loro sussistenza, essi producono una quota di valore eccedente (il plusvalore) che viene appropriato dal capitalista e diventa il suo profitto. Il plusvalore è dunque la misura dello sfruttamento della forza lavoro.

Su questa base, Marx giunse alla conclusione che i capitalisti possono realizzare dei profitti positivi se e solo se i lavoratori sono sfruttati.

Criticata dagli economisti borghesi, che vedono nel plusvalore il giusto compenso che gli operai pagano al fatto che il capitalista anticipa i salari prima di vendere la merce, e corre dunque un rischio, la teoria dello sfruttamento di Marx ha dato luogo ad un acceso dibattito in campo marxista che ha scisso l'ortodossia, che l'accetta come una verità scientifica dal revisionismo, che, accogliendo le critiche degli economisti borghesi, ritiene che essa vada riformulata.

In realtà, nella sua originaria versione, la teoria del plusvalore non può essere convalidata perché essa urta contro l'insormontabile ostacolo, identificato da Marx stesso, della trasformazione del valore nei prezzi. Sulla base della teoria del plusvalore, infatti, è impossibile spiegare la determinazione e la dinamica dei prezzi.

Ciò significa solo che l’identificazione tra plusvalore e profitto è errata, come è attestato già dalla storia che ha invalidato la previsione di Marx di un immiserimento progressivo della classe lavoratice. Dedurre da questo che lo sfruttamento non esiste è del tutto ideologico. Il vero problema sta nel chiedersi in quale misura esso concorra al profitto e se si danno dei limiti al di là dei quali può essere criticato economicamente, giuridicamente e eticamente.

Le ipotesi più recenti sullo sfruttamento, nell’ambito del pensiero socialista, prescindono dalla teoria del valore-lavoro, che vede nella produzione l'origine dello sfruttamento, e collocano questo nell'ambito delle teorie della giustizia. Da questo punto di vista, la nozione di sfruttamento capitalistico elaborata da Marx è un caso di una più generale tipologia dello sfruttamento: quello caratterizzato da disuguale distribuzione della ricchezza. Per questa via l'argomento si pone sul piano etico e fa capo ad un giudizio di equità sulla distribuzione dell'accesso alle risorse produttive. Si è sfruttati in quanto non si ha un giusto accesso ad esse. Questo significa anche che alcuni agenti sono in grado di far lavorare per se stessi altri agenti.

La teoria della giustizia o dell'equità assume dunque un ruolo centrale: lo sfruttamento di Marx è un suo epifenomeno, che si può interpretare senza riferimento alla teoria del valore-lavoro.

Coloro che rifiutano la teoria marxista sulla base della critica di non scientificità dell’ipotesi del plusvalore, non prendono minimamente in considerazione l’aspetto etico dello sfruttamento, intrinseco all’ipotesi, anche se negato da Marx.

Io ritengo che la globalizzazione in atto imponga di riaprire un dibattito su questo problema.

3.

La globalizzazione, in sé e per sé, non è altro che l’estensione a livello mondiale del mercato e della legge aurea del capitalismo della domanda e dell’offerta. Sulla carta, tale estensione non dovrebbe avere che effetti benefici in termini di concorrenza internazionale, determinando infine un sistema di prezzi "giusti", corrispondenti cioè al minimo profitto compatibile con la necessità dei capitali di valorizzare se stessi. Un ulteriore beneficio dovrebbe essere legato alla diffusione, a livello mondiale, della razionalità capitalistica, che permetterebbe ai paesi in via di sviluppo di decollare in nome di un’utilizzazione migliore delle loro risorse.

Nella realtà, anche se le statistiche sono controverse e interpretabili in termini non univoci, la globalizzazione, come si è realizzata sinora, ha prodotto di sicuro due fenomeni la cui somma è paradossale. Per un verso, è indubbio che la ricchezza mondiale è cresciuta nettamente; per un altro, è altrettanto indubbio che la distribuzione della ricchezza ha dato luogo ad una maggiore divaricazione tra paesi ricchi e paesi poveri, nonché, all’interno dei paesi ricchi, tra ceti privilegiati e ceti medi o non abbienti.

Da questo si potrebbe facilmente giungere alla considerazione che la globalizzazione ha prodotto uno sfruttamento iniquo nell’ottica delle teorie della giustizia. Un’analisi più sottile dei dati porta però anche ad un’altra conclusione.

La legge aurea della domanda e dell’offerta non si è mai realizzata nella sua pienezza, sotto forma di un sistema liberistico puro, per il semplice fatto che tale sistema, affidato a se stesso, non riesce a darsi (nonostante la mano invisibile di Smith) una regolazione. Esso tende inesorabilmente verso l’inefficienza monopolistica e fallisce nell’assicurare la soddisfazione di basilari bisogni sociali (istruzione, trasporti, sanità, previdenza). Per quanto riguarda il primo aspetto, è l’asprezza stessa della concorrenza a portare i capitalisti a pensare che la concentrazione dei capitali e la fondazione di società di dimensioni sempre maggiori, che permettono di utilizzare i vantaggi dell’economia di scala, può risurre la competitività e al limite assicurare un controllo sui prezzi di mercato. Per quanto riguarda il secondo aspetto. È chiaro che,, per quanto riguarda i servizi sociali, laddove non si danno margini di profitto o bisogna mettere in conto addirittura delle perdite, il capitalismo semplicemente si astiene dall’intervenire.

Nonostante l’esperienza storica attesti che il liberismo puro è sostanzialmente irrealizzabile, la globalizzazione si è avviata, con il reaganismo e il thatcherismo, sulla base del rilancio della ricetta liberistica e sulla sua proposizione al resto del mondo, attraverso la banca Mondiale e l’FMI, come panacea contro i mali del sottosviluppo.

Laddove questa ricetta è stata adottata, dalle cosiddette tigri asiatiche alla Cina e all’India, essa di fatto ha funzionato avviando una crescita che non ha riscontro nel passato di quei paesi. Sarebbe ingenuo, però, non considerare che questa crescita ha utilizzato e continua ad utilizzare come motore gli investimenti di capitali stranieri. Essa non sarebbe avvenuta se nei paesi occidentali non si fosse determinato un accumulo enorme di liquidità.

Questo aspetto, che conferma la teoria di Marx per cui alla base dello sviluppo capitalistico si debba dare un’accumulazione di capitali, è particolarmente importante. I capitali, infatti, si investono laddove sono maggiori i margini di profitto che essi possono conseguire. Il fatto che essi siano defluiti e continuino a defluire verso i paesi che hanno accettato la ricetta liberistica implica che colà essi hanno trovato le condizioni ottimali. Tali condizioni, come ormai è noto, sono riconducibili a tre aspetti: i privilegi fiscali, il basso costo della manodopera e l’assenza di un’organizzazione sindacale dei lavoratori.

In pratica, in quei paesi si sono realizzate, mutatis mutandis, le stesse condizioni vigenti nei paesi occidentali nel corso dell’Ottocento, vale a dire condizioni di sfruttamento. Certo, per il contadino affamato che inurbandosi trova lavoro come operaio, sia pure con turni massacranti e un salario modesto, il salto di qualità è del tutto positivo, almeno finché, acquisito un certo benessere minimale, egli non comincerà (come sta accadendo già nei pesi precursori, le tigri asiatiche) a rivendicare maggiori diritti.

Il decollo dei paesi emergenti ha determinato però un effetto di rimbalzo sulle società occidentali, più evidente in Europa. La concorrenza a livello mondiale ha prodotto infatti la necessità di contenere i costi di produzione e di aumentare la produttività. Questo effetto si può conseguire o in virtù di un miglioramento tecnologico e/o contenendo e diminuendo i salari e/o aumentando lo sfruttamento della forza lavorativa. Dato che i miglioramenti tecnologici sono ormai facilmente diffusibili a livello mondiale, la via imboccata dal capitalismo occidentale è stata quella di puntare sugli altri due fattori.

L’insistenza sulla flessibilità questo e non altro significa: che gli operai, per non perdere il posto di lavoro o per impedire il trasferimento della produzione all’estero, devono accettare di tornare dietro, di perdere privilegi acquisiti e di adottare la stessa logica passiva dei lavoratori dei paesi emergenti; in pratica, di farsi sfruttare.

La globalizzazione ha dunque non solo confermato che esiste lo sfruttamento etico, ma ha riabilitato lo sfruttamento nel senso marxiano. Se il destino di un’azienda dipende dal costo del lavoro, ciò significa che è il lavoro a produrre, se non totalmente, in buona parte il profitto.

La denuncia del regime lavorativo vigente a Melfi si iscrive in questo quadro.

L’esercito di riserva di cui parlava Marx, cioè di una quota di lavoratori disoccupati che, accettando salari più bassi di quelli occupati, valgono a moderare le loro richieste, vale a dire a contenere i salari, si è dunque mondializzato. Il lavoratore occidentale compete, in ultima analisi, con il lavoratore o l’aspirante lavoratore del terzo mondo che accetta qualunque salario pur di sfuggire alla fame.

La necessità dello sfruttamento è anche comprovata dal fatto che la legislazione inerente il mercato del lavoro, sia negli Stati Uniti che in Europa, si è andata progressivamente modificando sulla base dell’imperativo della flessibilità. Ma quest’imperativo, sostenuto come necessario per impedire che i privilegi dei lavoratori occupati cadano a danno di quelli disoccupati, implica in realtà la volontà di trasformare i disoccupati stessi in un esercito di riserva.

4.

 Il discorso non può fermarsi qui. La necessità, da parte della sinistra, di ricominciare a riflettere sul tema dello sfruttamento, senza la paura di recuperare le ragioni di Marx, e posto il fatto che la teoria del plusvalore non è scientificamente sostenibile, è urgente. Ancora più urgente è riconoscere la fondatezza delle intuizioni precorritrici di Marx sulla mondializzazione del mercato e sulla speculazione finanziaria.

Se, infatti, sul piano della produzione, la globalizzazione, come si è realizzata sinora, rischia di riproporre il regime della fabbrica ottocentesca, ancora più grave è il pericolo che i capitali, in virtù della liberalizzazione dei loro movimenti e della rete informatica che consente di impiegarli istantaneamente, si affranchino dalla produzione e perseguano la via della loro valorizzazione sul piano della speculazione finanziaria. Apparentemente il capitale finanziario sembra non avere nulla a che vedere con lo sfruttamento, dato che la sua valorizzazione non passa attraverso la produzione. In realtà, questo non è vero. La speculazione infatti verte sul fatto di sfruttare le informazioni economiche a livello di sistema economico mondiale. Essa si attiva laddove si danno possibilità di maggior profitto e si disattiva laddove esse vengono meno. Ciò significa che i capitali, se non si investono in azioni, si investono su indici che determinano il profitto, vale a dire sui tassi di interesse, sulle leggi fiscali, sulla valutazione e sulla svalutazione delle monete, ecc. L'investimento speculativo, in breve, riguarda decisioni macroeconomiche dei governi che, direttamente o indirettamente, incidono sull'occupazione, sul costo della vita, sul potere d'acquisto dei salari, sulla distribuzione delle ricchezze, ecc.

E' inutile aggiungere che i provvedimenti politici che esaltano i capitali finanziari sono univocamente quelli che ricadono a danno dei lavoratori (aumentando lo sfruttamento) e delle fasce meno abbienti della popolazione.

Con ciò il cerchio si quadra. Se non è in sé e per sé, come sosteneva Marx, un sistema nel quale il profitto deriva solo dallo sfruttamento del lavoro umano, il capitalismo non può sussistere e svilupparsi senza uno sfruttamento (di grado peraltro variabile). Nonostante la ricchezza che produce, e che è nettamente aumentata negli ultimi venti anni, la globalizzazione conferma, dunque, la scarsa compatibilità tra lo sviluppo capitalistico e i bisogni sociali.

Giugno 2004